Le piace anche come comunicatore?

Sì. Ci sono allenatori spinti palesemente dai media. Lui non è tra questi: poche parole, non cerca mai il centro dell’attenzione. E in un calcio che va nella direzione contraria, mi piace anche questo aspetto. Raro. E posso dirlo, visto che di calciatori ne ho conosciuti parecchi.

Glieli portava in casa suo padre?

Letteralmente. Sin da piccolo ho avuto modo di incontrare figure storiche, come il grande Benito Lorenzi, attaccante dell’Inter tra gli anni ‘40 e ‘50, oppure Andrea Bonomi, bandiera del Milan, famoso per esser stato salvato da piccolo mentre stava affogando nell’Adda. Famoso era anche chi lo salvò: il grande Valentino Mazzola.

Come si tengono insieme il calcio di suo padre e quello di oggi?

Non penso che si debba per forza idealizzare il passato, ma nel presente si tende sempre più a rimuovere il passato, a non studiarlo, a dimenticarlo. E quindi è importante conoscerlo, chiedendosi quale sia il senso del calcio, in un mondo che ha ridotto i tifosi al ruolo di clienti.

Giacinto Facchetti e Pelè
Giacinto Facchetti insieme a Pelè (ph. Image Sport)

Quando si è cominciato a trattarli così?

Non da un momento all’altro. Quando giocava mio padre, molti tifosi sono entrati nella vita della nostra famiglia, diventando amici. Oggi non sarebbe più possibile. Le cene coi club, gli incontri informali, le chiacchiere in ritiro: tutto finito. Ma la fortuna dei calciatori deriva dai tifosi, è sempre bene ricordarselo.

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