Pecci: "Il Bologna offre ogni anno le stesse prestazioni. La Coppa Italia del '74? La rapina del secolo"
L'intervista esclusiva a Eraldo Pecci, ex giocatore di Bologna e Torino, che si sfideranno domenica al Dall'Ara
A livello di atteggiamento in campo, ha visto un Bologna diverso nelle ultime due partite?
“L’atteggiamento e le prestazioni sono quelle di una squadra che di anno in anno fa sempre le stesse cose”.
Bologna-Torino, che significato assume per un doppio ex come lei?
“Sono due squadre nel limbo, se vincono o pareggiano poco cambia, ma se dovessero inanellare una serie di vittorie consecutive come sta facendo il Verona, allora potrebbero pensare davvero di arrivare in Europa League o in Conference. Tuttavia, il Bologna e il Toro mi sembrano un po’ troppo fuori da questo tipo di obiettivi”.
Allora che tipo di partita si aspetta?
“Il Torino è una squadra che ti aggredisce e il Bologna va molto in difficoltà quando avviene ciò, anche se il Toro è meno costruttivo rispetto ai rossoblù. All’andata i granata andarono in difficoltà, seppur ci siano state delle decisioni arbitrali che secondo me li hanno favoriti. Il Bologna deve riuscire a trovare un’identità in grado di battere questa tipologia di gioco degli avversari e allora, potremmo vedere una partita interessante”.
Il Torino non vince da cinque partite, qualcosa si sta inceppando o è un normale calo di forma per una squadra da centro classifica?
“Il Toro è una squadra che in fase di non possesso effettua un pressing asfissiante, ma quando ha palla è poco creativa. L’ho notato quando manca Mandragora. L’attività di gioco principale del Torino è prenderti palla e ripartire. La squadra non ha un gioco che la caratterizza, sono i giocatori che creano la strategia. Se tu avessi Messi potresti fare un certo tipo di discorsi, se invece hai Brekalo o altri fai più fatica a trasformare tutto in gol. Ora però sembra che Belotti sia in ripresa e stia andando tutto abbastanza bene, potrebbe essere lui la soluzione a questo tipo di problema”.
Barrow non sta rendendo, Sansone un poco di più, ma entrambi hanno in comune l’essere discontinui. A cosa è dovuto?
“Se hai delle buone doti e sei continuo, allora sei un fenomeno. Non tutti possono essere campioni. C’è chi è un dignitoso e chi un buon giocatore, ma non tutti sono fuoriclasse”.
Le differenze fra il suo Bologna e quello attuale.
“Ogni epoca ha le sue caratteristiche. Ora il calcio è un pochino diverso, ma non quanto si voglia far credere. Dopotutto ci sono sempre una palla, un avversario e un arbitro. I giocatori sono cambiati, oggi ad esempio non ci sono più un Bulgarelli, un Haller o un Savoldi, ma non vedo nemmeno un Bologna capace di retrocedere in serie B, come invece è accaduto qualche volta negli anni passati”.
Ci può raccontare l’ultimo rigore tirato nella finale di Coppa Italia del 74?
“Una volta non si dava all’arbitro la lista dei primi cinque rigoristi. Io ero in panchina a vedere i rigori e, arrivati all’ultimo, Pesaola mi guarda e mi chiede se vado io. Mi guardo intorno e non c’era più nessuno. Erano tutti spariti quindi sono andato. Segnai il rigore decisivo e si completò una delle più grandi rapine del secolo. Il Palermo sbagliò trecento gol, meritava di vincere. Noi riuscimmo a pareggiare e poi vincemmo ai rigori, ma nel calcio succede. A volte sei più fortunato e altre meno. Diciamo che quella volta ci andò veramente di lusso”.
“Ci piaceva giocare a pallone – Racconti di un calcio che non c’è più”. Come nasce l’idea e cosa voleva intendere con questo titolo?
“Inizialmente sentii la necessità di raccontare nel libro “Il Toro non può perdere”, l’avventura di quella squadra che nel ‘76 vinse lo scudetto. Un gruppo che aveva una chimica particolare, roba che nel calcio non sempre accade. Volevo parlare di quell’ambiente, di quell’Italia e di persone che non sono conosciute, come i massaggiatori e tutti quei componenti che stanno attorno ad una squadra di calcio, ma che non hanno tutta questa visibilità. Pulici e Bulgarelli li conoscono tutti, mentre i magazzinieri no. Il libro l’ho scritto molto volentieri e andò bene, ed infatti la Rizzoli insistette affinché ne scrivessi un altro. Siccome sono una persona di ’picaglia' tenera, mi sono fatto convincere. Ho fatto il secondo che non nasce da una mia esigenza bensì da un’insistenza. L’argomento che ho voluto affrontare era l’Italia di quei tempi, il modo di vivere il calcio e descrivere la nostra situazione, come Paese e come famiglie. Ho toccato questa tematica ma non sono uno scrittore, ed è venuto fuori questo”.